Negli ultimi anni non ho visto spesso mio fratello. Da bambini invece eravamo inseparabili, non muovevo un passo senza di lui. Mario ha pochi anni più di me, ma fin da bambino, prima che acquistassi sicurezza in me stesso, anche nei momenti in cui io non sapevo che pesci prendere, lui pescava squali in tutta tranquillità. È sempre stato più forte di me, ma non è mai stato amato, a prescindere dalla strafottenza che dimostrava verso il resto del mondo. Se la prendeva sempre con tutti, anche con la nonna, era contro tutto quello che non andava secondo la sua logica infallibile, o il suo senso di giustizia e di verità. La nonna aveva un fissazione, una tradizione, una panacea, una scaramanzia: l’amaro dei frati della Certosa. Tutta la famiglia doveva berlo alla fine di ogni pasto, chiunque venisse a trovarci non poteva uscire senza aver trangugiato il suo bravo bicchierino, tanto che in paese l’amaro dei frati era conosciuto come l’amaro di Berta anche nei bar. Toccò anche a me e mio fratello, dai quindici anni in poi. Io lo buttavo giù come se fosse un rospo. Lui serrava le labbra fino a farle sparire, una volta si tolse delle margherite dalla tasca dei pantaloni e ce le mise dentro. Era il mio eroe. Anche quando prendeva discussioni interminabili con la nonna, che sosteneva a lingua tratta che chi beveva l’amaro dei frati fosse più felice. Mario già a quindici anni riusciva a discutere di psicologia senza aver letto Freud. Quando attaccava l’arringa restavamo soli, la tavola si spopolava, se ne andava anche la nonna, ma anche senza pubblico lui non lasciava mai un discorso a metà. Io gli sedevo accanto e guardavo il suo profilo: lo sguardo fiero e il naso triste, la bocca dalle labbra pronunciate che si muoveva rapida tra le parole e faceva uscire una voce ora rombante come una Harley, ora stonata come il cigolio di un cardine da registrare. Aveva quindici anni e non conosceva bugie, neppure di quelle piccole che a quell’età ti salvano una settimana di televisione. L’amaro dei frati, per quello che lo riguardava, era il liquido di un serpente velenoso. E la felicità era qualcosa di ben più grande di due dita di liquore in un bicchiere. Anch’io la pensavo come lui, ma non l’ho mai detto. Diversamente da cosa potrebbe sembrare, non restavo accanto a lui per non lasciarlo solo. Ero io che non riuscivo a stare senza di lui. Appena cinque anni dopo, invece, quando mi sono innamorato di Aida, me ne sono andato e mi sono trasferito ad Ancona. Lui non è mai venuto a trovarmi. Aida era bella e occupava tutti i miei pensieri. Erano i primi anni ’70, la prima volta che l’ho incontrata era notte. A Roma. Stava dipingendo il simbolo della Pace sopra ad un muro nei pressi della stazione, con la mano sicura, ha creato dal nulla un cerchio perfetto, come se fosse sempre esistito e lei fosse lì solo per scoprirlo al mondo. Non le ho mai parlato di Mario. Da quella sera avrei seguito lei e il suo golden retriever in capo al mondo, ma mi sono fermato a casa sua, pochi mesi dopo. Quando chiamavo la mia famiglia al telefono parlavo con mamma, la nonna Berta e papà, ma non parlavo mai con mio fratello: come se partendo lo avessi disgregato nella completa indifferenza che cresce rigogliosa sopra a un tradimento. È successo anche con Aida, siamo spariti l’uno nel nulla dell’altra dieci anni dopo, ormai entrambi a stento riconoscibili rispetto a quei due che si erano incontrati. Sono tornato ad abitare in quel piccolo paese alle porte di Taranto dove di solito chi si allontana non si vede mai più. Anche Mario non era più lì. Nessuno in famiglia ne faceva parola, nessuno in paese sembrava ricordarlo. Solo io me lo sentivo ancora vicino come se fosse ancora presente nelle stanze che avevamo abitato insieme. Forse perché io avevo fatto ritorno e il mio ritorno lo comprendeva comunque in quei luoghi.
Poi, pochi giorni fa, ero alla fermata dell’autobus con il biglietto in bocca e le mani impegnate dal cellulare. Proprio davanti a me si è fermata una macchina, è scesa una donna troppo bionda e troppo truccata che si è allontanata di fretta. Dal finestrino aperto ho visto l’uomo alla guida di profilo, lo sguardo non era fiero come quello che conoscevo un tempo, era più sottomesso e aveva la stessa tristezza del naso. Era Mario. O gli somigliava. Ho rincorso l’auto, l’ho chiamato e il biglietto mi è caduto dalla bocca come una foglia morta. Avrei voluto che fosse lui. Avrei voluto che scendesse anche lui dall’auto, che mi rompesse il naso con un pugno e che mi deridesse per tutto quello che non andava in me secondo la sua logica infallibile, o il suo senso di giustizia e di verità. Alla fine ho smesso di correre e sono tornato sui miei passi, mentre dalla pancia ho cominciato a tossire una risata isterica. Non ho ritrovato neppure il biglietto, l’ho perso insieme a lui. Ecco, quella è stata la fine del mio spettacolo, l’eclissi di un mito che fa parte di me da quando ho imparato a camminare. Avrei dato una costola per averlo ancora accanto, ma Mario non c’era e non c’era mai stato. Non è mai esistito. Sono figlio unico e non ho più tanta immaginazione, ma lo amo ancora più di me stesso.
