Il pianoro sul colle calvo era abbracciato a una notte che sembrava chiudersi perfettamente intorno ai suoi contorni. La polvere fine dello sterrato era chiara di luna. Tutto il resto era nero, come se non ci fosse. Il pianoro appariva come un mondo che aspettava di essere scoperto per svelare la propria forma. Non aveva mura di difesa, non c’erano torri di vedetta e fossi stregati, era un mondo diverso, e questo bastava a non fargli avvicinare nessuno. Nei luoghi intorno al colle, da sempre disabitati, un giorno arrivò un grande popolo di nomadi che riempì la valle. Un colle brullo e scuro. Un pianoro sabbioso caro alla Luna. Tra i nomadi c’erano due bambini curiosi che la notte uscivano dalle tende e camminavano per mano intorno al campo. Restavano nascosti, in attesa che tutte le voci tacessero e che i fuochi restassero disabitati, per poi danzare insieme nella musica che restava nel silenzio. Era sempre stato così, da quella prima volta in cui, per caso, si erano trovati insieme a guardare la notte fuori dalle tende. Ma in quella valle, finché la luna non diventava un piccolo disco disperso nell’alba, la musica c’era, suonava lontana, mugolata appena se non c’era vento, e bastava una leggera brezza per far suonare invisibili cembali d’argento. Una notte di vento i due bambini si presero per mano e lasciarono il campo, cercando l’origine di quelle note che suonavano dall’orizzonte. Quella luce che in distanza, nel buio di tutto il resto, sembrava una nube distesa sotto il riflesso della luna era un pianoro e tutto il resto era un colle liscio come la pelle di una madre: i bambini si arrampicarono lassù. Si aiutarono a vicenda nell’ascesa, ogni passo dell’uno sosteneva quelli dell’altra. Avanzarono insieme su un sentiero non tracciato, scoperto d’istinto, guardandosi nel buio e ascoltando i respiri e lo scalpiccio degli animali. Zampe veloci e invisibili li accompagnavano pur non essendo mai le stesse. Lassù nessuno trovava altro rifugio che l’ombra notturna proiettata dalle nubi in movimento nel cielo. Non c’era vegetazione sul colle e gli animali per celarsi dovevano rincorrere le nubi nella corsa del vento. Gli animali non avevano mai visto da vicino i cuccioli del popolo su due gambe e senza ali, un po’ li temevano, come si temono i giovani dei. Mentre i due bambini raggiungevano il pianoro la musica crebbe, coprendo ogni altro rumore. Finché apparve alla loro vista un ampio spazio illuminato dal chiarore della luna e da un grande fuoco. Due cembali d’argento si muovevano in aria. Passi ritmati scoppiavano con il fuoco, alzando polvere dalla polvere. La bambina dai grandi occhi neri se ne accorse per prima. Il bambino dalla lunga treccia era distratto dai giochi di Zefiro con le fiamme. Sentì a un tratto la mano di lei che gli stringeva un braccio e la guardò mentre la sorpresa le schiudeva le labbra. Entrambi guardarono per un istante eterno i due corpi che danzavano intorno al fuoco. Due giovani si muovevano al centro di un vortice, come due angeli che battono le ali più forte dei tuoni del cielo. Lei alzò la testa e i capelli le si sparsero intorno, scoprendole il volto, fatto di un ovale perfetto e due occhi grandi e neri. La treccia di lui frustava l’aria. Si riconobbero in quei giovani come se il vento avesse portato avanti gli anni e rimasero a guardarsi, un po’ increduli, come il tempo fosse lì ad aspettarli.
Quando, la mattina seguente, tutti si accorsero che i due bambini non erano tornati al campo l’intero popolo di nomadi li cercò in ogni dove. Raggiunsero il colle qualche giorno più tardi, trovarono il silenzio e un fuoco spento. I bambini non erano più lì, forse c’erano stati, ma adesso erano già altrove.
