Sono nata a New York il 1° febbraio 1926, era un lunedì, un giorno proverbialmente maledetto. Quel lunedì era forse tra i peggiori che potesse capitare. La mia famiglia abitava a Manhattan e il ponte di Brooklyn era chiuso al traffico a causa del ghiaccio che si era formato per le rigide temperature notturne, scese dopo la nevicata arrivata sulla città nel pomeriggio della domenica. Era morta una donna, investita da un tram che aveva perso il controllo, mi ricordo che qualcuno raccontava di averla vista ancora distesa per strada, mentre la polizia proteggeva il suo corpo dal nevischio con un ombrello. Se non mi fosse mancato ancora un giorno per nascere -e qualche anno per crescere-, sarebbe stata una bella foto da scattare. Ne ho scattate tante nella mia vita, ho perso il conto dei rullini. Non sono una fotografa, sono una bambinaia. Sono una bambinaia che non ha mai avuto figli. Ho partorito foto dalla Rolleiflex che tenevo appoggiata sul ventre e che era l’unico gioiello che volessi indossare. Non le ho sviluppate, o almeno la gran parte sono rimaste lì dove sono nate, sulla pellicola ancora chiusa nel rullino, dentro le scatole che mi hanno seguito in decine di traslochi, per finire ogni volta in stanze serrate agli estranei con un lucchetto. Così, ho cresciuto i figli degli altri senza crescere i miei. Forse resteranno per sempre in questo spazio sospeso, come se avessi avuto la possibilità di togliere realtà alla realtà che ho raccolto dalla strada, ai signori con il cappotto, alle signore addobbate di pellicce e cappellini, come pena per gli sguardi superbi e severi, alla fine con lo stesso destino dei poveri, impolverati e stracciati, come sollievo dalla miseria e dai patimenti. Li tengo tutti nell’anima, come se la mia anima fosse un’unica stampa di tutte le foto che ho scattato. Uno spazio segreto dove riesco a avvicinarmi alla gente, ancora dietro all’obiettivo, sfuggendo sempre così, ancora un’ultima volta, a l loro sguardo. Ho sperimentato e stabilito nelle inquadrature i limiti del mio confine fisico, ma ho violato il vostro spazio privato, ne ho fatto il mio talento senza considerarlo un’arte, perché non sono una fotografa, sono una spia. Mi è sempre piaciuto avere segreti e sentire la gente che mormorava del mio mistero. Mi chiamano “la Francese” per via di questo accento che mi diverto a scimmiottare, mi viene molto facile, quasi naturale, perché la francese era mia madre. Era nata sulle Alpi, non lontana da quel piccolo paese che amo e che odio, dove ci siamo trasferite insieme per qualche anno, fino al 1938, quando il disastro familiare ha preso la giusta strada e mia madre e mio padre si sono separati. Con noi c’era Jeanne, l’amica di mia madre che ci aveva accolte già nel Bronx. è lei che mi ha passato la passione per la fotografia: lei era davvero una fotografa. Di quel posto e di quegli anni amo ricordare i giochi nella campagna, le scorribande con i bambini del paese che mi seguivano in ogni avventura che fossi capace di immaginarmi. L’odio è un ricordo che non vorrei avere. C’è chi mi ricorderà per sempre come una bambinaia. Che mi terrà nella sua anima, tra il bianco e il nero, fatta di luce e oscurità come nei ritratti che mi sono scattata, riflessa in specchi e vetrine, quasi senza consistenza corporea, con il sole sempre alle spalle che mi allungava sulla strada e sulla spiaggia, invisibile agli altri che popolavano la scena, inconsapevoli anche della mia ombra. La prima famiglia che mi ha assunto per il servizio di bambinaia, qua a Chicago, aveva tre bambini. Uno di loro mi chiamava Mary Poppins. Avevo trent’anni e la Rolleiflex era già con me, l’avevo acquistata qualche anno prima dopo la vendita all’asta di una proprietà che avevo ricevuto in eredità, in Francia.

Ora è strano essere accudita. Sono anziana, ho quelle scatole di rullini e nient’altro, non ho più soldi. Se quei tre bambini ormai cresciuti non mi avessero trovato un alloggio e non si occupassero delle spese, chissà dove sarei. Domani devo trovare il modo di parlargli delle scatole che tengo in quel magazzino in affitto e che non riesco più a pagare o chissà che fine faranno. Potrei proporgli di barattare il mio alloggio per l’affitto di quella stanza. Io posso stare ovunque, la strada mi aspetta da sempre. Sì, domani devo trovare le parole giuste per parlare a tutti e tre, anche se non so come dimostrare la riconoscenza e cosa si dice per farlo. Cercherò di meritarmi il nome di Mary Poppins. La tenerezza mi ha sempre fatto paura, ma devo avvicinarmi il più possibile, come se potessi inquadrarla in un’ultima fotografia. Adesso è meglio uscire a fare due passi verso il parco e sedermi sulla mia panchina a pensare. Il ghiaccio di questo inverno fa brillare il suolo ed è uno spettacolo surreale, mi piace lo scricchiolio sotto i miei passi, devo solo fare attenzione a non cadere.

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