Questa città è fatta di piccoli mondi racchiusi in poliedri d’acciaio, che trovano sempre una luce per splendere, una lava che cola dall’alto, che abbaglia la vetta e scende sugli spigoli, come se fossero sul punto di fondere in uno schianto. Ci sono esseri di quei mondi che hanno un cuore e un corpo di pietra, su cui il tempo non lascia traccia, che si muovono ogni giorno nella certezza dell’eternità e che, invece, un giorno muoiono, senza mai averci pensato prima. Anch’io non penso alla morte, ma leggo ogni giorno, su di me, il tempo che passa. Ho viaggiato molto, in luoghi lontani, dove non c’erano altri corpi che il mio e ho esplorato i sogni umani fino a farne cenere di speranze. Ho trascorso giorni nello spazio, trovandomi decenni alle spalle al mio ritorno.Vorrei che il tempo si fosse fermato quando ti ho incontrato vicino al Sole. La febbre marchiava i miei pensieri, come fosse padrona di una mandria fuggita da un incendio che non ha più dimora dove tornare. Venere sei tu. Ti ho visto uscire dalla neve di tellurio sulle cime dei Monti Maxwell di Ishtar. I popoli della Terra possono continuare a credere che sia stato qualcuno di loro a dare un nome al tuo pianeta. Solo io, che ti ho incontrato, so che il tuo mondo ha il tuo nome perché tu sei nata con lui, nella prima notte dove il nulla si è riempito di stelle. Quando ti ho visto correvi verso il Sole, mentre sul mio pianeta era l’ora in cui il suo disco stava per toccare il mare. Senza avere movimento che somigliasse a un qualsiasi moto eri velocità. Senza avere un corpo che somigliasse a qualche altra creatura eri bellezza e ancora adesso, per me, non esiste altra bellezza che la tua. Solo per te il tempo non è mai esistito, perché il pensiero del tempo non ti appartiene. Il ricordo della tua luce va oltre il tempo. Sei la stella della sera che ancora splende nel mattino. Sempre, quando alzo la testa verso il cielo, ti guardo e ti sento vicina. Anch’io, cercando il tuo astro nella notte e nell’alba, posso scordare le rughe che contano i miei anni, posso non sentire il ticchettio degli orologi e tentare di fuggire dalla noia di un giorno più lungo del tuo. Non ho più viaggi da fare, lascio i deserti inesplorati, il ghiaccio, i vulcani e le rocce rosse su cui tu non sei passata a chi vuole partire al mio posto, a chi crede di avere ancora tempo per non deludere i sogni umani. Avevo un amico che mi aspettava nella stazione orbitante ogni volta che facevo ritorno, gli piaceva scrivere vecchie storie di cacciatori e di androidi. Quando ci siamo incontrati, al mio rientro da Venere, mi ha confidato di aver trovato la chiave per aprire una porta temporale; sul momento non l’ho preso sul serio, però in seguito non l’ho più incontrato. Philip è l’unico amico che abbia mai avuto, ma quella sera non sono riuscito a parlargli di te. Stamani sono stato in biblioteca, come faccio spesso da quando non viaggio più; ho trovato un vecchio libro in formato digitale, leggendolo mi è sembrato di sentire ancora Philip parlare dei suoi androidi sbandati e sgangherati. Ho pensato a lui mentre tornavo a casa, chiedendomi dove sarei adesso se mi avesse chiesto di seguirlo oltre la porta del tempo. Forse sarei tornato da te, sei l’unico sogno che non ho bruciato. Stasera, in questa città fatta di piccoli mondi racchiusi in poliedri d’acciaio, sono tornato a casa e mi sono seduto, nudo, accanto a questo fuoco che non si consuma. L’ho regolato sulle alte temperature per immaginare di esserti più vicino, spogliato degli abiti in fibra ceramica che mi hanno impedito di bruciare con te su Ishtar Terra.
