Il cielo dal finestrino di un treno è un unico nastro che corre da una città all’altra, passando sulle case e sui monti, senza differenza d’altezza. Se partire è un po’ morire, scendere dal treno è come rinascere ogni volta che si tocca il suolo di una nuova stazione, tra il rumore delle ruote del trolley e lo stridio di altri treni sui binari, mentre i freni gridano come aragoste buttate in pentola. C’è gente che va e viene, tra sorrisi e lacrime, mani che si stringono e mani che si lasciano, che vorrebbero toccarsi ancora da dietro i finestrini, quando le porte si chiudono con la rapidità di un boia. Il viaggio è lungo, guardo i miei occhi riflessi nel vetro, le pupille sono ferme tra la polvere. La vecchia seduta davanti a me guarda fuori, i suoi occhi si muovono come se rimbalzassero dentro a un elastico. Non dovrebbe viaggiare da sola, chissà cosa la porta lontano da casa, dai suoi soliti passi nelle solite strade. Guardo anch’io il paesaggio, corriamo vicino all’autostrada, ma non so dove siamo, i cartelli mi voltano le spalle. Non ho con me né musica né libri. In viaggio sono una passeggera, una persona seduta senza emozioni, o con un’emozione da poco. Preferisco guardare fuori, facendo passare il tempo con lo spazio, nel paesaggio che scorre senza di me. Mi piace smarrire quel confine trasparente che separa il film che si proietta sul finestrino da quel mondo fatto di alberi e case, di gente che vive e si muove un momento prima che passi il mio treno. Mi piace pensare che il tempo fuori dal finestrino abbia una lentezza che in quel momento non mi appartiene.
La vecchia mi guarda, abbiamo gli stessi occhi grigi, un grumo di nebbia impigliato tra due file di ciglia. Io le guardo le mani, le dita sono storte e magre, la pelle tesa, sul punto di strapparsi, dove le ossa si disegnano come corpi sotto le lenzuola. Ci stiamo lasciando il sud alle spalle. I colori della campagna non gridano più, sussurrano tra l’erba che accarezza le colline. Non ci sono più gallerie che trovano la fine sul mare, non c’è più alcuna illusione sull’orizzonte, l’azzurro è solo cielo. Ora la vecchia si è addormentata. Vorrei che restasse così fino a Milano, come una tartaruga che si dondola, tra i rantoli, sul guscio. Vorrei che non mi parlasse, eppure, quando apre gli occhi, sono io a chiederle «Da dove viene?». È un piccolo paese, di quelli di cui potrei scordare subito il nome se non ci fosse nata mia madre. La vecchia ha un dolore che stringe tra le labbra come il mozzicone di una sigaretta, mentre mi racconta la sua storia. Ha due figli maschi che vivono lontano, in mezzo ci sta un mare grande. La vecchia parla lentamente, il treno corre verso la capitale e lei ha una voce suonata da una corda sola, tiene una mano sul volto, a momenti ci si sppoggia, le rughe si sciolgono tra le dita mentre il sole batte sul vetro.
Quando arriviamo a Firenze parla ancora, mi dice che il marito è morto da pochi mesi e che in paese non conosce più nessuno. Ha un segreto con sé, è dentro una busta. Su una foto sbiadita c’è un dono del mare, una bambina dal colore di perla. Anche la vecchia era quasi una bambina quando l’ha messa al mondo. Sul treno i segreti scappano fuori dalle tasche, saltano fuori dai cappelli come coni- gli bianchi, sbucano dalle borse lasciate aperte per distrazione. Sul treno i segreti si raccontano agli sconosciuti come fossero fiabe, mentre il passato sta fuori dal finestrino, insieme a un tempo che non ci appartiene. Quella bambina ha il nome di mia madre.
«Mi chiamo Rosa», mi dice. «Mi chiamo Rosa anch’io», le rispondo. A Bologna io e la vecchia ci guardiamo come fosse la prima volta.
A Milano ci sono due rose che scendono insieme dal treno, mia madre è sul binario, senza sapere di essere una perla dentro a una conchiglia.

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