In quegli anni, il pavimento di casa era in piastrelle di graniglia, le stanze erano piccole e l’appartamento stava all’ultimo piano di un palazzo che aveva per anima una ringhiera sghemba, dal corrimano debole come un dente di latte sul punto di staccarsi. Ci abitavo con la mia famiglia, mio padre, mia madre e mia sorella America, che era nata un anno dopo la Liberazione e non era mai stata battezzata, per la picca di mio padre di darle quel nome. Io ero il primogenito, sono nato sotto un bombardamento. Eravamo andati ad abitare lassù all’inizio degli anni Cinquanta, quando anche la mamma aveva trovato lavoro in una fabbrica di conserve, io e mia sorella passavamo il giorno tra la scuola e una zia senza figli, che ci faceva la guardia. Quando ci siamo trasferiti, tu abitavi già al piano terra, eri nato un anno prima di mia sorella. Ora ti ricordo come in tante fotografie custodite sotto il letto. Nella prima fotografia, ti vedo sulla porta di casa, sei seduto sulla soglia e due grandi lacrime ti strisciano sul viso, come la scia di due lumache invisibili, tieni in mano una pallina di stoffa a spicchi colorati, è scucita e la segatura piove in verticale, con la velocità di un sogno che si consuma. Io ho in mano una spada corta fatta di legno, che mio padre aveva lavorato. Anche la mia spada è rotta, l’elsa si è staccata dalla lama, ma io non piango, perché non ho mai pianto in tutta la mia vita. Nella seconda foto, siamo insieme sul greto del fiume, poco distanti da casa, saltiamo tra l’erba come fanno le rane. Tu hai gli occhi azzurri come quel mare di cui ci raccontano, ma che non abbiamo mai visto, io ho gli occhi neri come la notte in cui sono nato. Quando ci guardiamo in faccia, ridiamo senza motivo, o forse perché la scuola è finita da pochi giorni, ci sentiamo leggeri, senza peso, a ogni salto potremmo trasformarci in due aironi, volare sull’acqua, nutrirci di pesci e non tornare più a casa, restando insieme per sempre. Ogni sera, quando ci salutiamo, sembra che sia un addio. Ogni sera vorrei saper piangere e forse tu, che non hai mai resistito alle lacrime, lo fai. Nella terza foto, tu hai una barba bionda e stenta, come le prime piume che mettono gli uccellini dei nidi, io ho un’ombra sotto il naso che mio padre mi ha insegnato a radere tutte le mattine. Siamo seduti accanto sul muro del fiume e c’è una falce di luna che sembra l’occhio dormiente di un ciclope. La notte è qualcosa più grande di noi. Tu mi sfiori la mano senza volere e mi lasci sulla pelle una manciata di stelle, che continuano a brillare anche quando rientro a casa, mentre tutti dormono ed io non riesco a dormire. Dalla sera successiva, non ci troviamo più, non ci vediamo più da vicino, non stiamo più insieme. Quel giorno, che se chiudo gli occhi vedo ancora, era fine estate, America già lavorava, io soltanto avevo continuato gli studi e mi ero alzato presto per stare un po’ sui libri. È l’ultima fotografia, ti vedo dalla finestra della mia stanza, piove ed è mattina presto. America sta uscendo per andare a lavoro e ti saluta con la mano, senza fermarsi, con un sorriso senza parole. Tu hai una valigia accanto e stai salendo sull’auto di tuo padre. Io non piango, ma so che tu hai pianto come sta facendo il cielo.
Sono partito anch’io, qualche anno dopo, nessuno mi ha mai detto dove sei andato, da dove non sei mai tornato. Tu sei il mio ragazzo triste, avrei voluto scoprire il mondo insieme a te, come da ragazzi abbiamo esplorato il fiume, avrei voluto viaggiare, migrare con te, ancora come quei due uccelli che cercano un’estate che non finisca con il primo temporale. Chissà, se da qualche parte avremmo toccato terra. Chissà, se sfiorandomi con le ali, mi avresti tolto il sonno come quella notte. Ho avuto tanti amori nella mia vita, ma di nessuno di loro sono mai riuscito a immaginare il pianto; il tuo certe sere mi sembrava di sentirlo attraversare i muri anche quando tu non c’eri più.
Mi sono trasferito da poco qua sul mare, lo guardo dal terrazzo ogni volta che mi va, lo colorano i tuoi occhi e mi sembra di poterti cercare, di poterti trovare. Il sale che sento sulla pelle è l’idea di quelle lacrime che non ho mai versato, o forse il sapore di quelle stelle che mi hai lasciato l’ultima volta in cui siamo stati insieme, la prima in cui ti ho amato.