C’era un piccolo paese di provincia, fatto di case bianche e basse. C’erano una piazza con i relitti di due panchine e una chiesa fredda di pietra e di preghiere. Davanti alla chiesa c’era un bar, dove non si era mai visto entrare una donna, piuttosto sarebbe stato più facile vedere un elefante salire per le scale. Avevo due amiche, Chiara e Caterina, eravamo le uniche tre ragazze del paese. Il mio nome non mi è mai piaciuto, il mio nome fa male, e di contro mi faccio chiamare Letizia. Questa è la storia di quando ce ne siamo andate.
Ci conoscevamo da sempre, non ho un ricordo senza di loro. Insieme ci siamo cotte al sole della piazza e inzuppate di pioggia, abbiamo saltato la corda e giocato a palla avvelenata, abbiamo camminato ogni giorno per due chilometri per arrivare a scuola, ci siamo innamorate dello stesso ragazzo, senza gelosia. Quel giorno era il primo dell’estate ed era appena iniziato il pomeriggio, le nostre ombre erano unite sull’asfalto, come se fossimo una cosa sola; la testa di Caterina superava le nostre di qualche centimetro e sembravamo un cammello che striscia sulla strada. Caterina aveva gambe lunghe e braccia stanche, capelli neri come il peccato e un volto scolpito senza ingenuità, anche a tredici anni. Pareva non avesse niente da imparare, che avesse già visto tutto, perché non c’era niente che la potesse stupire. Chiara era trasparente, come se qualcuno l’avesse vista prima di nascere per sceglierle quel nome. Io, a quel tempo, ero tutto quello che non avrei voluto, mi sembrava di non riuscire a crescere, che quella faccia da bambina non mi sarebbe mai passata. Ero piatta come una lasagna, usavo tutti i fazzoletti per riempire il reggipetto e mi asciugavo il naso con le mani.
Mi tenevano i capelli corti, perché i miei riccioli erano così cattivi che non si facevano pettinare. Capitava spesso che mi scambiassero per un ragazzo e la cosa mi faceva imbestialire, tanto che raddoppiavo la dose di fazzoletti, rubandoli dai cassetti di mia madre. A un tratto Caterina ci disse «Ma dove stiamo andando, ma cosa ci stiamo raccontando» e intendeva che lì non c’era niente, neppure a dieci chilometri, e che i nostri sogni non avevano possibilità di crescere su quella terra. Stavamo lì, con la testa tra le nuvole e le ali ai piedi, potevamo solo essere attrici di uno spettacolo a occhi chiusi. «E cosa c’è oltre questo posto?» chiesi io, mentre Chiara stava zitta. «C’è il Grande Oltre», disse Caterina, e noi la seguimmo. Quella notte dormimmo in un campo di grano, prima di addormentarmi guardavo le stelle e guardavo la luna, cercavo risposte senza fare domande e non ne trovai nel cielo, come neppure dentro di me.
La mattina seguente arrivammo sulla strada opposta, quella che andava lontano, tagliando per il campo, camminando curve come cucchiai piegati con la forza del pensiero. Arrivammo oltre il paese e oltre una piccola città, ancora troppo piccola per essere il Grande Oltre. Dopo dieci giorni eravamo a Roma, Chiara era irriconoscibile, aveva perso trasparenza e aveva paura, ogni giorno di più. Aveva paura di essere trovata. Tornare era diventato impossibile, per tutte e tre, ormai non potevamo più rimettere piede né a casa, né in paese. A Roma si dormiva negli androni dei palazzi, sotto le scale, tra le biciclette. Roma era grande e di notte il cielo era bello, c’era tanta gente, c’era sempre qualche straniero che ci allungava un panino e potevamo nasconderci facilmente. A Roma potevamo fare grandi sogni. Poi, una sera, è cambiato tutto. In un bar, vicino alla stazione, c’era un televisore acceso, io ho alzato la testa, ho visto la mia faccia bambina e sul video ho letto il mio nome, quello a cui non rispondo mai. Chiara e Caterina erano in bagno e sono andata a chiamarle, quando siamo tornate indietro insieme c’era tutto il bar che ci aspettava. Era il 10 agosto. Chiara è diventata isterica, ho visto cadere tutte le stelle dai suoi occhi, come desideri che si schiantano al suolo. Io le sono rimasta accanto, asciugandole le lacrime con i fazzoletti che avevo nel reggipetto. Caterina aveva le gambe lunghe, ha raggiunto la porta con un guizzo e si è messa a correre per strada. Non l’abbiamo più vista, nessuno l’ha più trovata. Io e Chiara siamo tornate a casa, accompagnate dai Carabinieri. Sono passati dodici anni da allora. Io sono ancora piatta come una lasagna, ma avere i capelli ricci è stata la mia fortuna. I sogni ci restano impigliati e ne ho ancora tanti, ho imparato a farli anche a occhi aperti. Sono una sognatrice e credo nei miei valori. Non so cosa stia facendo Caterina, laggiù nel Grande Oltre, ma quando mi alzo da terra, con la testa tra le nuvole e le ali ai piedi, non posso essere tanto lontano da lei.

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