La prima volta che ho avuto la sensazione di volare stavo su un carretto, di quelli con cui giocavano i bambini ai miei tempi. Avevo visto le montagne russe da pochi giorni. Ero in giardino con mia sorella, mettendo insieme qualche asse di legno avevo costruito un corridoio che scendeva dal tetto del capanno degli attrezzi. Poi, salita sul tetto con il mio carretto, mi ero lanciata giù. Quando sono atterrata sull’erba mia sorella si è coperta la bocca con la mano e ha chiuso gli occhi. Da piccola mia sorella Mary aveva una faccina buffa e agitava le mani per parlare anche quando stava zitta. Mi seguiva come un’ombra, come se dovesse registrare dentro di sé quello che facevo, più che per imparare per raccontare al mondo le mie imprese. Ora mi starà cercando, come il resto del mondo. Io sono qui e penso proprio che nessuno riuscirà a trovarmi. Sono su quest’isola che sulle carte non c’era e che, invece, sta in mezzo al Pacifico, anch’io non l’avevo vista mentre ero in volo, neppure da lontano. Forse c’era stata sulle carte dei corsari, forse sono loro che l’hanno cancellata, terrorizzati da qualche ubbia. Sembra che l’isola sia disabitata, o almeno, ancora non ho incontrato alcun popolo e nessun altro animale. Il vuoto fa paura, anche ai corsari. L’isola è nascosta da una nuvola che non si sposta mai, è il suo respiro che la nutre. Io ci sono arrivata a nuoto. Non si vola senza carburante. Quando ho toccato terra mi sono voltata, ma il relitto del mio aereo non era più visibile dalla riva. Anche il Pacifico era vuoto, come se il nulla potesse essere azzurro, come se un colore potesse mettere distanza. Nel silenzio la voce dei pensieri non sembra più la mia, è quella di mia madre, sono cresciuta con i nonni, per tanti anni l’ho solo immaginata. È lei che mi ha aiutata a comprare il mio primo aeroplano. Forse le sarebbe piaciuto volare ed era un suo sogno silenzioso. Mia madre non ha mai viaggiato, ha solo seguito mio padre quando si è trasferito a Des Moines. È mio padre che mi ha fatto salire la prima volta su un aeroplano, per un volo di dieci minuti su Los Angeles, mettendomi in mano un dollaro per pagare il biglietto.
L’isola è piena di verde, le chiome degli alberi sono un cappello che mi copre dal sole, sono un sussurro di foglie che mi racconta una fiaba, la sera, prima di addormentarmi. Fortuna che i sogni restano sogni, anche qua. La mia vita, la vita che avevo, mi sembra un’utopia. Non posso più sfidare me stessa. Sono esiliata dal cielo, costretta con i piedi per terra ed è la terra, non quest’isola, la mia prigione. Come facevo da bambina, come faceva forse mia madre, posso solo sognare di volare. Le fiabe che mi raccontano gli alberi parlano di uccelli dalle grandi ali, che qua non si vedono. Oggi, esplorando l’isola, ho sentito dei suoni lontani, brevi cinguettii stonati di piccoli volatili, che usano più le zampe delle ali. Ogni sera raggiungo la riva e guardo il cielo disabitato. Il mio cuore è così, su questo grumo di terra galleggiante, senza battiti e senza correnti ascensionali che lo rendano leggero. La nube soffoca ogni alito di vento e ogni speranza. Il giorno del mio primo volo, appena arrivati, con mio padre ci siamo fermati a Long Beach, ho visto le montagne russe da lontano e ho perso il fiato, immaginando il salto della discesa. Ogni mio volo, dal tetto del capanno come nel cielo, ha sempre avuto la spinta immaginaria di una corsa nel vuoto, non ho mai avuto paura. È da quello che non c’è che nascono i desideri. Ho amato le sfide, ma forse non ho mai amato il volo come adesso. Forse se mi fossi inabissata con il mio aereo, affondando, mi sarebbe sembrato di volare ancora. Vorrei aver potuto vivere sott’acqua, prima o poi sarei riuscita a decollare anche dagli abissi del Pacifico. Anche questa isola si è fatta trovare nella sua assenza, come se fosse nata mentre mi avvicinavo a bracciate e un minuto prima non ci fosse.