Le chiamavano fotografie, mio padre ancora le conserva. La vecchia Harlow era proprio un altro posto. A quei tempi i Barrow erano giganti e lo siamo ancora rispetto agli altri, l’altezza nella mia famiglia si è ridotta di soli tre piedi. Siamo diversi e per noi non c’è alcun luogo dove abitare in questa città. Viviamo per strada. Mio padre, mia sorella ed io siamo asteroidi in collisione con questo mondo che ci considera elementi di un attacco alieno. Non siamo gli unici, ma siamo in pochi. Possiamo parlare solo tra noi, non ci è concesso rivolgere la parola agli altri, quelli che vivono nelle case di Harlow. Così i giorni passano in silenzio. Ogni giorno è una tavola liscia su cui scivolare, senza lasciare traccia. Siamo impiegati nei lavori più umili e pesanti, lavori occasionali che al massimo possono durare per una settimana, per evitare di stabilire contatti personali. Siamo considerati individui pericolosi, fatti di cellule sovversive, di una ribellione che neppure la scienza è riuscita a piegare. Chi se lo può permettere, quelli che si sono ridotti di poco meno di quattro piedi, cercano di mimetizzarsi, indossano cappelli e camminano trattenendo il passo entro una falcata insospettabile. Spesso sono madri a cui sono nati figli che crescono secondo le tabelle di normalità, perché la legge vuole che altrimenti i bambini vengano allontanati dalla famiglia d’origine. Semplicemente allontanati, senza che sia prevista un’adozione. C’è un quartiere dove si erge l’Istituto dei Nuovi Cittadini, è qua che vengono raccolti fin dall’età scolare ed educati secondo le regole etiche della nuova Harlow. Il quartiere si sviluppa su pianta circolare ed è cinto da mura molto alte, vi si accede attraverso un’unica porta, c’è una lunga saracinesca che cade dall’alto insieme alla notte. L’entrata nel quartiere è sotto sorveglianza, i guardiani sono scelti fra le seconde generazioni. I nuovi cittadini di terza generazione, invece, possono vivere fuori dal quartiere, escono ogni venerdì, anche se poi vengono ancora controllati e misurati come bestie da mercato. Preferisco la strada, i ponti e i rifugi di fortuna, essere dimenticato dalla storia e guardare in faccia ogni sera un vecchio e una ragazza in cui mi riconosco. Ma ho un amico che vive là dentro, per questo ogni tanto mi avvicino, anche se so che non riuscirò mai più a vederlo. Mi fermo davanti alla saracinesca quando è già chiusa e immagino di aprire un taglio nella lamiera, un piccolo occhio rugginoso da cui possono entrare quelli che penso siano ancora i nostri ricordi. Credo che anche una buona educazione non possa stordire del tutto i ricordi della strada, che resti qualcosa per sempre. I colori cambiano attraverso le sfumature, è un passaggio che resta nella memoria, ogni verde è stato azzurro, ogni uomo ha un presente e un ricordo del passato che è la propria sfumatura. Ricordo quella volta in cui siamo saliti sul ponte, sotto ci vivevamo. Peter aveva pochi mesi più di me, ma era già molto più piccolo, sua madre da pochi giorni aveva comprato i cappelli da indossare per strada. Mia madre non c’era già più. C’era mia sorella, metterla al mondo era l’ultima cosa che aveva fatto. Io e Peter camminavamo a poca distanza sulla spalletta, lui davanti e io dietro. Ad un tratto lui si è fermato e si è capovolto, ha messo i piedi nel cielo con una verticale perfetta e mentre lui rideva, con la faccia rossa e gli occhi sgranati, io gridavo come in un incubo. Non ho mai avuto il suo coraggio. Quando è stato notato, perché il cappello l’aveva perso nel fiume, e sono venuti a cercarlo per portarlo all’istituto, era con me. Mi ha guardato per l’ultima volta e mi ha salutato come se ci fosse ancora un domani. Sua madre invece è svenuta senza dargli neppure l’ultimo bacio. È il suo coraggio che mi fa ancora pensare che tutto non sia perso. Se avrò figli ogni venerdì all’alba verranno con me davanti alla porta del quartiere dei Nuovi Cittadini e impareranno ad aspettare quello che non accade mai, come adesso faccio io nella speranza di vederlo uscire. Nella vita bisogna avere un sogno, anche se resta un sogno non per questo è una delusione. Resta un sogno. Conosceranno Peter da quell’azzurro che è stato il cielo che abbiamo condiviso, che è il mio passato e il suo. Certe volte davanti a quella porta ho una gioia sottile che mi agita, una trepidazione che mi punge la pelle, sento un picchiettio sulle tempie e guardo in alto, dove finiscono le mura e inizia la notte. Certe volte i sensi mi giocano lo scherzo di farmelo vedere lassù, ancora bambino, steso in una perfetta verticale, mentre stacca una mano dall’appoggio e mi saluta con i piedi tra le stelle.